James Nachtwey, fotografare l’inferno

All’inferno si associano immagini, metafore, perfino numeri. Basta pensare al 666, il numero che da sempre è associato al diavolo e al male.

Ma l’inferno ed il paradiso non sono quelli che ci vengono descritti da Dante Alighieri nella Divina Commedia. L’inferno può essere anche un luogo sulla terra, se si ha l’occhio giusto per vederlo.

Un occhio che ha saputo cogliere l’inferno e le porte del paradiso è quello di James Nachtwey, fotoreporter e fotografo statunitense, considerato uno dei fotoreporter di guerra più importanti degli ultimi anni.

Il fotografo statunitense sa bene com’è fatto l’inferno, e nei suoi 40 anni di carriera ce ne ha dato un assaggio attraverso le sue opere.

Le opere di James Nachtwey

Ogni tanto, James Nachtwey viaggia all’inferno e ritorno. Di ritorno da campi di battaglia con nomi di luoghi lontani come El Salvador, Nicaragua, Libano, Afghanistan, Somalia, Ruanda, Romania, Bosnia e Cecenia.

Dall’inizio della sua carriera come fotoreporter, Nachtwey è testimone di un inferno sanguinante e pieno di fiamme per quei pochi che ascolteranno. Immortalando la sofferenza perpetrata dall’azione umana, perlustra il mondo osservando carestia, siccità, violenza, crudeltà quasi impossibile, morte orribile e onnipresente.

Potrebbe essere tua sorella, dicono le sue fotografie. Le fotografie di Nachtwey si impegnano nella sofferenza.

Oggi Nachtwey è chiaramente dalla parte delle vittime. Inferno è il secondo libro del fotografo, il primo in 11 anni. Le dure immagini in bianco e nero sono abbinate alla massa pietrosa del libro, alla lapidaria grossolana della cosa. Imballato in modo massiccio e di forte impatto, Inferno è tutto ingombrante intenzionale. Come nessun altro libro nella memoria recente, Inferno non può essere riposto comodamente da nessuna parte: né su un tavolino, né su uno scaffale; non, certo, nella memoria.

Un viaggio attraverso alcuni dei peggiori terreni di sofferenza umana degli ultimi dieci anni, Inferno si insinua in profondità negli angoli non così nascosti del mondo per riportare immagini angoscianti e strazianti. Andando in posti che ignorano compiaciuto e soddisfatto di sé, espone i confini esterni della pax americana, l’utopia trionfalista post-Guerra Fredda che storici irresponsabili avrebbero diffuso in tutto il mondo con i franchise di McDonald’s e Internet. Invece di un comodo consumismo, Nachtwey ci mostra persone in pantaloncini, calzettoni e polo lavorate a maglia che fissano le tombe fresche dei loro morti in battaglia

La storia del libro Inferno

Nachtwey ha viaggiato in più di una dozzina di luoghi per comporre Inferno. Dopo aver visitato i reparti sotterranei di Nicolai Ceausescu pieni di oltre 100.000 orfani, Nachtwey si è trasferito nelle terre desolate della Somalia e del Sudan.

Nella Cecenia piena di macerie, dove pochi giornalisti osano avventurarsi, Nachtwey ha seguito ancora una volta le vittime. Si è concentrato, per il bene dei posteri spietati, sulla vita al punto di rottura, fornendo una testimonianza raccapricciante e senza risparmiatori sui limiti fangosi e mutevoli dei passaggi finali.

Il libro Inferno è costruito da scatti crudi ma pieni di una verità che la vita di tutti i giorni ci risparmia per decenza o per pura codardia.

C’è, vuole disperatamente dirci, la dignità nel morire e nell’essere umani, non importa quanto orribili o barbare siano le circostanze.

Ma le fotografie di Nachtwey ci parlano attraverso i suoi innumerevoli soggetti: veicoli, ciascuno, di una testimonianza muta, non romantica e inattaccabilmente dignitosa, un pozzo profondo di speranza umana che raffigura empaticamente la miseria dove prima c’era solo disperazione.

La sua attività da fotografo la descrive con le seguenti parole “Non uso gli elementi estetici della fotografia per puro gusto estetico. Non uso quello che sta succedendo nel mondo per fare discorsi sulla fotografia. Uso la fotografia per dichiarare ciò che sta accadendo nel mondo. Io sono un testimone e voglio che la mia testimonianza sia eloquente.”.

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